mercoledì 31 marzo 2010

Fantastic Mr Fox di Wes Anderson

State cucinando lo stufato o siete in ufficio. Forse state sbucciando una mela o semplicemente facendo il manicure. Bene, in questo momento lasciate bruciare lo stufato e rinunciate a limarvi le unghie e correte al cinema. C'è da vedere questo film, una chicca. Una vera chicca. Che vale lo stufato.
La storia è tratta da un libro di Roald Dahl, lo scrittore di origine norvegese con un nome da purè di lenticchie indiano. Il film è animato in stop motion, in italiano "a passo uno", cioè quando filmi  dei pupazzi mentre si muovono a poco a poco (lo spiego per le rape come me).  Il risultato è perfetto e riposantemente retrò dopo i fasti della computer grafica e del 3D. Siamo tornati ai tempi della plastilina del Fernet Branca.
Mr e Mrs Fox vivono con il figlio Ash e il nipote Kristofferson in un grande albero. Mr Fox ha da tempo abbandonato l'attività di ladro di polli per amore della famiglia, ma dopo anni, spinto dall'istinto cacciatore,  decide di tentare un ultimo grande colpo ai danni dei tre sgradevoli fattori che hanno le proprietà di fronte all'albero di Fox. La vendetta dei tre uomini sarà durissima e metterà a repentaglio tutta la popolazione di animali sotterranei, dall'opossum al tasso al ghiro. Ma alla fine Mr Fox insieme ai suoi amici, grazie al suo istinto ferino riuscirà ad avere la meglio.
Mr Fox veste in completo doppiopetto di velluto a coste e camiciola un po' anni '50, proprio come il suo regista Wes Anderson (è quello dei Tenembaum), famoso damerino. Il figlio Ash va in giro con dei gilerini fatti a maglia e un asciugamano al collo portato come un mantello, il nipote Kristofferson fa yoga e meditazione e Mrs Fox dipinge paesaggi con nuvole e lampi.
Non c'è un singolo dettaglio che non sia delizioso, intelligente, divertente, surreale. Come quando il figlio Ash, invidioso del fatto che tutti hanno un passamontagna per le rapine, se ne confeziona uno con un calzino e quindi per tutto il tempo va in giro con la sagoma di un piede sopra la testa come una cresta di gallo. Ma è una goccia nel mare, faremmo notte a dirli tutti.
La sceneggiatura è lieve, ironica, dolce. Così tanto che mi è successo l'inspiegabile.
Verso la fine del film, c'è l'incontro a distanza di Mr Fox - che sta fuggendo in sidecar dai cattivi insieme a figlio nipote e amico opossum - e un lupo solitario che si scorge lontano. Il gruppetto si ferma un attimo e Mr Fox, chissà perchè in francese, urla al lupo "Pensez vous que l'hiver sera dur?". 
E poi alza il pugno chiuso in segno di saluto. 
Bè, chiedo perdono, ma forse perchè sembrava la celebrazione dello spirito ferino o forse perchè oggi, alla luce di risultati elettorali, noi tutti sappiamo che l'inverno sarà duro, ecco, mi vergogno a dirlo, ma mi sono spuntate le lacrime. 
E quando sono tornata a casa, a sera inoltrata in motorino, non so perchè, queste lacrime sono continuate a scendere per tutto il tragitto. Ma non per la politica, non più per quello, ma perchè in qualche sacca nascosta del mio animo, questo sciocco film animato, con dei buffi animali vestiti come dei gagà, è andato a pescare delle inspiegabili emozioni, fatte di spiriti liberi, di peli e polli, di frasche e code di volpe. Di gentilezza e sense of humor, di festa visiva e cazzeggio intellettuale. 
Questo film ha pescato qualcosa: me, che come un ghiotto salmone, son finita in bocca alla volpe.

giovedì 25 marzo 2010

Happy family di Gabriele Salvatores

Pare che ci siano recensioni che plaudono, pare che si scomodi Pirandello, pare che piacerà... io l'ultimo film di Salvatores l'ho trovato agghiacciante. Una boiata pazzesca. Inutile, gratuita, senza arte nè parte. Il testo è tratto da una commedia teatrale e purtroppo si vede... non si è andati al di là di questo. Guardando Happy family sembra come se il cinema, per la maggioranza dei registi italiani, sia una cacca da prendere con le tenaglie per snaturarne qualsiasi dignità di racconto, di senso, di compimento. E soprattutto continuano a perpetrare uno stile vecchio come il cucco. Qualche post fa vi parlavo dei bellissimi titoli d'apertura dell'austriaco Revanche. Ecco, per darvi un'idea, i titoli di Salvatores hanno come sfondo un sipario teatrale rosso che ricorda i film di Totò e i titoli scritti in corsivo come per una partecipazione di nozze. Sarà pure voluto, ma che pena.
La press release apre con una citazione di Groucho Marx (che se lo sapesse chiederebbe i danni dalla tomba o brucerebbe con il suo sigaro l'intera baracca) che recita: "preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere. Nella vita non c'è una trama".
Non so nella vita, ma una trama non c'è neanche nel film di Salvatores, quindi a questo punto non resta che leggersi un buon libro... va bene anche il ricettario di Suor Germana, sempre meglio. 
Persino nella suddetta press realise non riescono a riportare la trama, solo frasi tipo "Happy family è una confessione camuffata, una commedia che parla della paura di essere felici". Cazzate. Non parla di niente. Un niente che provo a riassumere.
Ci sono due famiglie (Bentivoglio e Buy da una parte e Abatantuono e Carla Signoris dall'altra) che si incontrano una sera a cena perchè i due figli adolescenti si vogliono sposare. Il pretesto è di una banalità sconcertante, anche perchè si capisce immediatamente che il ragazzino è gay lontano un miglio e se lui ancora non lo sa, noi lo sappiamo appena apre bocca. Oltre questo incontro e la preparazione all'incontro non c'è molto altro. Ah, si dimenticavo: deus ex machina del meccanismo è Ezio (De Luigi) uno scrittore che teoricamente scrive la storia che stiamo vedendo, ma in realtà finisce per viverla in prima persona a causa di un banale incidente in bicicletta. Per aggravare ancor di più il senso teatrale del film, in varie occasioni i personaggi "bussano" al computer di Ezio pretendendo parti più ricche, scene in più. Ed è qui che viene citato Pirandello, un altro poveraccio che starà rigirandosi nella tomba e questa dovrebbe essere la trovata spiritosa, la soluzione fuori dagli schemi del film.
Il tutto nella cornice di una Milano estiva fotografata benissimo, ma come una cartolina, con quei colori super saturi e con quel gusto da fumetto che aveva un po' il film Amelie. C'è anche una sequenza di immagini della città notturna in un bellissimo bianco e nero che di per se stesse sarebbero magnifiche, ma che nel contesto perdono di ogni significato.
Gli attori sono tutti bravi, ma sotto sotto si capisce che sono i primi a non sapere bene cosa ci stanno a fare. Abatantuono fa sbellicare dalle risate ogni volta che apre la bocca, ma se fosse in mutande a casa sua cazzeggerebbe nella stessa identica maniera. 
Agli sceneggiatori italiani rivolgo una preghiera. Guardatevi un po' di serial americani per capire come funzionano i meccanismi narrativi. Credo che "Barbie e la magia del lago" sia un film meglio costruito di questo. Ed è della solita ochetta che si parla.


mercoledì 17 marzo 2010

Avatar di James Cameron

Non ricordo molto della mia infanzia. Quelle cose tipo "ah si, la magia della mia infanzia, oh si quando la fantasia per me era tutto... vedo rumori sento colori... un mondo meraviglioso". Insomma, io quelle stronzate lì non me le ricordo. Solo poche, confuse memorie: tutto un gran picchiarmi con i miei fratelli, andare a scuola, arrampicarmi sugli alberi, sentirmi un alieno rispetto agli altri e leggere tutto quello che trovavo in giro. Punto. 
Sarà per questo che mi è piaciuto Avatar. Perchè si vedono rumori e si sentono colori. C'è quello che forse solo qualche bambino particolarmente geniale o inspiegabilmente venuto a contatto con del peyote poteva immaginare, sognare, creare.
Non sto neanche a parlare della storia, chi se ne frega, Cameron ne ha raccontata una, poteva raccontarne mille altre. Certo, sul finale ci sono alcune cosucce imbarazzanti (non la battaglia, per carità), certo le scene di preghiera intorno al grande albero potevano, dovevano essere evitate. Ma, ripeto, chi se ne frega. E poi il buon vecchio Cameron è lineare, se scrive un plot tradizionale e tradizionalista, non fa finta che sia qualcosa di diverso. Per intenderci: rispetto a Tim Burton che per tutto il film di Alice è come se ammiccasse in continuazione dicendo "bè, però guarda come io te la cambio la storia, bè però qui c'è un sottotesto che devi capire, bè però io qui sono più intelligente e innovativo di quello che è Alice e Lewis Carroll, bè però..... etc etc" e poi però fa ballare l'hip hop al Cappellaio Matto, Cameron non vuole fare l'intelligentone, non vuole darti niente di meno di un vero polpettone americano con un classico finale da "arrivano i nostri". Insomma, non millanta: lui fa quella cosa lì.
Solo che la fa da dio. Proprio dio, non il suo vice.
Sfido chiunque ad avere la sua capacità immaginifica, di poter inventare il mondo di Avatar con quelle piante, quei fiori, quei colori, quelle montagne. E poi il gran treccione dei Na'vi che si connette con animali cose e città, e poi la notte popolata da foglie luminescenti, e i voli in picchiata degli uccelli-pipistrelli Ikran, e poi le manone e i piedoni del popolo blu, i loro fianchi sottili, e poi e poi... e poi è difficile starci dietro. 
Ecco, se avessi qualche ricordo della mia fantasia infantile, vorrei che fosse qualcosa di molto simile al mondo di Avatar. Avrei voluto restare sospesa come le sue montagne in un'atmosfera di leggera inconsistenza. Avrei voluto che il mondo si illuminasse sotto i miei piedi. Avrei voluto combattere gli elicotteri con le frecce colorate. Avrei voluto abitare in un albero-casa invece che in un condominio. 
Ed è quello di cui ringrazio James Cameron e chi si è inventato il film insieme a lui. Di aver immaginato il mondo che io non sono stata capace di sognare.

lunedì 15 marzo 2010

Precious di Lee Daniels

Precious è una ragazza obesa di 16 anni (e quando dico obesa dico che non le si vedono gli occhi per la maggior parte del tempo, perchè sono sommersi dalla ciccia), che fa una vita da schifo. Vive con una mamma pazza assassina che le lancia pesanti oggetti contro il capoccione, il padre la violenta e la mette incinta dua volte. Dal primo stupro è nata una bambina down che Precious chiama affettuosamente Mongo e che vive con la nonna materna. Il racconto inizia dalla seconda gravidanza, quando a scuola se ne accorgono e, grazie anche alla segnalazione di un maestro che sostiene che la ragazza è brava in matematica, la preside invece di buttarla fuori e basta, si fa carico di segnalarla per un programma di insegnamento alternativo. 
Stop, stop. Interruzione con mio momento razionale: io non capisco se sono l’unica ormai che sente sempre di più il bisogno di un senso logico nei copioni o no. Ora, com’è possibile che nella scuola di Precious si accorgano solo adesso che qualcosa non va e nessuno invece ha sollevato questioni anni prima quando, presumibilmente a solo 11/12 anni la ragazza dà alla luce la prima figlia? E come mai nessuno si è accorto prima delle sue capacità in matematica, lasciandola vegetare per anni su un banco di scuola, senza che sappia leggere e scrivere? Poi, quando finalmente Precious arriva nella nuova scuola, come d'incanto le cose cambiano: trova compagne di classe messe ancora peggio di lei con cui riesce a instaurare un rapporto e una maestra super figa, a partire dal fisico, che neanche Robin Williams con Oh capitano, mio capitano (ma lui era meno bello). 
Quindi ecco, non posso dire che il copione mi abbia convinto, sulla carta era la solita storia super drammatica senza mezzi toni, ma mi pare che dopo "Anna dei miracoli" queste storie qui non si possano più fare. 
Eppure Gabby, la ragazza molto grassa, e Mo'nique, la mamma molto stronza, sono anche molto brave. E il povero Lee ce la mette veramente tutta a cercare di non fare un film patetico: si inventa i sogni di Precious, che poi sono i sogni di Amici, s'inventa le musiche molto funky nero, s'inventa una leggerezza, s'inventa persino il momento "La Ciociara", dove fa il remake di una scena del film di de Sica, facendo recitare in italiano Precious e la mamma. Sebbene le due riescano a parlare in un italiano neanche malaccissimo, l'effetto è assurdo.
Così il film te lo guardi con molta partecipazione e ti commuovi anche, sebbene la cosa ti dia fastidio, almeno a me dà fastidio commuovermi al cinema, soprattutto quando il sottotitolo è: "te voglio fa chiagne". Sin dai tempi di "Anna dei miracoli", giustappunto. 
A me piace commuovermi per cose inaspettate, mica per quello di cui non posso fare a meno di piangere. E nel film alla fine c'è troppa Oprah, la star americana dei talk show del pomeriggio, che è la produttrice della pellicola.  
Per cui andate a vedere Precious, vi piacerà, e portatevi i fazzoletti; ma un po', sotto sotto, arrabbiatevi anche, perchè certe storie sono così tristi e tremende che voi non ci potete fare niente, solo cercare di non piangere e restare incazzati.

martedì 9 marzo 2010

Appuntamento con l'amore di Garry Marshall

La sera dell'anteprima di Appuntamento con l'amore, andando al cinema in motorino, ho incrociato un tizio, anche lui in motorino, che davanti a me lasciava una scia di dopobarba d'indescrivibile potenza. Ora, io so apprezzare i profumi, ma bisogna saperli dosare con parsimonia. 
Avrei voluto fare lo stesso discorsetto, ma parlando di zucchero in questo caso, a Garry Marshall. Che, ricordiamocelo, è stato il regista di Pretty woman. E, dimentichiamocelo, di altri innumerevoli film insulsi tipo Pretty princess e Principe azzurro cercasi. E quindi: "Attento Garry, se ti viene il diabete poi sei costretto a farti d'insulina per il resto della tua vita. Parsimonia, Garry".
Come già espresso in questo blog, di norma non sono contro i filmetti rosa, tutt'altro. Trovo che ce ne siano di molto onesti e ben scritti e trovo che a tarda sera o in una piovosa domenica pomeriggio siano un toccasana per l'animo depresso. Ma non è il caso di Appuntamento con l'amore. 
Il genere è di quelli classici in cui mille storie in qualche modo (e in questo caso con il più flebile dei pretesti) di ritrovano collegate l'una a l'altra e come in molti di questi casi c'è un dispiego di forze veramente singolare (da Shirley McLaine a Julia Roberts, da Kathy Bates a Jessica Alba etc etc... gli uomini non ve li cito che non c'è bisogno). 
Il problema, quando metti insieme tutti questi nomi come fosse la lista della spesa, è che non c'azzeccano niente. Le coppie sembrano formate da una specie di matchmaking mama impazzita che si è nottetempo impadronita del copione. Jessica Biel (nella vita la fidanzata di quel simpatico ed esile biondino Justin Timberlake) finisce con il macho nero, ex Malcom X, di Jamie Foxx. E fuori uno... 
Jennifer Garner finisce con Ashton Kutcher (il marito bambino di Demi Moore) e sembra sua madre, molto più di Demi. E due... 
Eric Dane (per le esperte, il chirurgo plastico super scopatore di Grey's anatomy) fa il gay con Bradley Cooper ed è la coppia di omosessuali più improbabile che mi sia stato dato di vedere. 
Potrei andare avanti così con tutto il cast, ma vi risparmio. 
Il tutto con testi inutili, riprese che fanno credere che Los Angeles sia la città più brutta dell'universo e meccanismi di una noia mortale. Una delle poche cose guardabili del film sono i vestitini che indossano quasi tutte le fanciulle, Jessica Biel in testa, che fanno invidia alle italiane ormai schiave di Zara e H&M.
In coda a tutto ciò vorrei aggiungere che fin quando non andavo mai al cinema, giusto quelle due o tre volte ogni sei mesi in cui mi sceglievo accuratamente i film, vivevo nella magica convinzione che il cinema, li fuori dalle porte di casa mia, serbasse altrettanti tesori inestimabili che, per mia pessima organizzazione e mancanza di baby sitter, non riuscivo a raccogliere a piene mani. 
Bè, mi sbagliavo: la quantità di cagate che ci sono in giro .....

Mine vaganti di Ferzan Ozpetek

Mi verrebbe da dire, il solito Ozpetek. Il che non vuole essere un insulto, ma neanche una celebrazione. Godibile, leggero e melodrammatico al tempo stesso, ho anche riso molto durante la proiezione, ma poi me lo sono prontamente dimenticato. 
La storia, in brevissimo (non leggetela se volete conservarvi il colpo di scena): Tommaso (Scamarcio), figlio di una ricca famiglia borghese di Lecce, torna a casa da Roma dove studia, pronto a confessare la sua omosessualità, quando, nella serata scelta per la rivelazione, viene superato dal fratello maggiore Antonio (Preziosi) che a sua volta si confessa gay, rubandogli il momento. Reazioni indignate della famiglia, semi infarto del babbo, Antonio scacciato di casa. Tommaso si trova dunque a doversi sobbarcare le sorti del pastificio di famiglia e a tacere sulle sue scelte di vita. Viene affiancato nel lavoro dalla socia, Alba- Grimaudo, segretamente innamorata di lui e a poco a poco, preso dalla vita di tutti i giorni, Tommaso sembra dimenticare la sua vera identità. L'arrivo per qualche giorno dei suoi amici gay e del fidanzato, e la morte dell'amatissima nonna lo spingeranno a tornare alla sua vera vita. 
Bè vabbè... c'è di buono che Ozpetek, al quale il trash piace, se ne frega se un attore  è etichettato come di serie B o televisivo e ci dà dentro con la Grimaudo (non perfetta, ma molto carina nonostante il suo personaggio venga poi mollato per strada, senza alcun approfondimento psicologico), Alessandro Preziosi (mi è sembrato meglio del solito), Lunetta Savino (ottima), Elena Sofia Ricci (brava) e un irriconoscibile Daniele Pecci nei panni di uno degli amici gay, scheccatissimo, di Tommaso. La Minaccioni che fa la servetta con accento pugliese è perfetta anche. Ozpetek  ha il merito di osare e di usare questi attori senza farsi le menate se sono gli attori "giusti" e politically correct e in questo bisogna dargli atto di un certo coraggio. Molto meno per quello che riguarda genere e ambientazione. Pare che Ozpetek non si sappia muovere se non in ambienti rassicuranti, comodi e super tradizionalisti a dispetto del suo costante tentativo di épater les bourgeois  con i suoi balletti di checche semi nude o con le canzoni anni '60.
In questi ambienti non proprio da bracciante agricolo, appare piuttosto eccessiva la reazione del capofamiglia all'omosessualità del figlio. 
E il genere commedia eccessiva fa sì che quando poi arrivano le tragedie, si rimane un po' spaesati, e non si metabolizzano poi molto, anche perchè non pare essere il pensiero primario del regista. 
Alla fine, Mine vaganti è un film divertente, che nel ritorno verso casa viene, seppur con sentimenti di stima e simpatia, dimenticato come il buon creme caramel, dolce leggero e non impegnativo per antonomasia,  mangiato poco prima per cena.

Crazy heart di Scott Cooper

Ok, è la solita storia: lui è ormai perduto, una povera cosa sul viale del tramonto, ma poi incontra lei e la vita sembra offrirgli una seconda chance. E lui la prende, questa seconda occasione, e fa di sè stesso a better man. Fine.
E poi c'è Jeff. Bridges. Ponti. D'oro. 60 anni fatti due mesi fa. La speranza delle cellule che non vogliono invecchiare. E non solo; che vogliono anche restare brillanti, vivaci, piene di sense of humor, di distacco, di fedeltà nei confronti della stessa moglie da 32 anni, dell'essere sexy, del farsi beati cazzi suoi.
Il cuore di Crazy Heart batte perchè c'è lui, altrimenti era solo una sequela di paesaggi meravigliosi, di qualche canzone gradevole nonostante sia country music (e si sente che non è la solita roba da bovari ma qualcosa di più raffinato, fatto apposta per il film).  All'inizio Jeff ricorda un po' "Drugo" Lebowski, certo, ma poi capisci che è il personaggio che lo richiede, non  lui che non sa fare altro.
Poi, per chi ama il genere, c'è anche Colin Farrell, ma io non amo il genere. Altro genere odioso è quello del bambino figlio della protagonista, un orrendo bamboccio con la faccia identica all'ultimo Elvis, quello gonfio di alcol e pasticcone per intenderci. Mancava il sudore da concerto e poi c'era tutto. Invece Maggie Gyllenhaal, verso la quale nutro a priori sentimenti di simpatia, oltre che di invidia per le sue anche ossute, secondo me non brilla quanto le critiche americane vogliono farci credere, tanto da essere nominata per l'Oscar come migliore attrice non protagonista. Ma forse risente del doppiaggio, non so che dire.
Jeff invece il suo Oscar se l'è meritato e da tesoruccio qual è l'ha dedicato ai genitori e alla moglie, ma si può... 
C'è un momento del film in cui dimostra di essere un grande attore. Mentre parla con un altro, fa risalire il lunotto posteriore della sua jeep e, mentre chiacchiera, accompagna con la mano il vetro che sale, imprimendo una leggera pressione. Un gesto di una tale maestria, cura e naturalezza che da solo vale l'Oscar.
C'è un altro Oscar per il quale non c'è stata nomina e che avrebbe riscosso la mia totale approvazione. Quello per i costumi. Vorrei sapere chi è il genio che ha scovato i pantaloni in tessuto sintetico che indossa Jeff per quasi tutto il film. Valgono l'acquisto del biglietto.

mercoledì 3 marzo 2010

Alice di Tim Burton

Non ho più l'età. Sì, bè... non ci possono essere altre spiegazioni al fatto che a metà del primo tempo di Alice mi sono addormentata. E' perchè sono vecchia, ammettiamolo. Nonostante il 3D non desse requie, per non parlare della musica che ha pulsato, è il caso di usare questo termine, dall'inizio alla fine come fosse prodotta da un'orchestra posseduta dal maligno. Nonostante i colori e le invenzioni e gli occhi spiritati di tutti. Nonostante tutto, per lunghi tratti ho trovato la pellicola soporifera. 
Eppure ho amato indistintamente tutti gli animali riprodotti in digitale, dalle rane ai cani alle simil iene orsiformi con tripla fila di denti. Meravigliosi. Così come ho trovato geniali i gemelli, clonati da Matt Lucas di Little Britain. Ma alla mia età queste cose non bastano. Sono qualcosa, un inizio, un antipastino, ma poi rimane la fame.
E quindi ho trovato superflua e telefonata la prima parte, quella che vede un'Alice 19enne e vagamente pre raffaellita prendere tempo per rispondere alla domanda di matrimonio di un lord saccentone dai capelli rossi (e ci pensa pure? suvvia ma chi se la beve...) e filologicamente irritante l'aria annoiata con cui, una volta arrivata nel mondo delle meraviglie, si aggira fra rovi e colonne. Ma dico, sei fra Bianconigli e Cappellai matti e fai quella che vorrebbe essere a Rodeo Drive a fare shopping? E poi nell'Alice dei cartoni animati, unico riferimento possibile, c'era leggerezza, vera follia, nonsense profondo, non solo filastrocche senza senso ripetute a memoria.  In quella di Tim Burton c'è un'ambientazione neo gotica che forse sarebbe potuta piacere a John Ruskin, ma che in me alla lunga ha generato un senso di oppressione e di inutilità, una specie di videogioco che culmina con l'uccisione del drago da parte del campione con l'armatura scintillante. Sarà un caso che il Brucaliffo continua a chiedere alla protagonista se è la vera Alice?
E sta Regina Rossa, sempre a gridare "tagliategli la testa"...
Poi c'è lui, Johnny... si lo confesso, sono una delle poche donne a cui Johnny Depp non piace. Non sono così pazza da dire che sia brutto, dico che non ne posso più di quella boccuccia perennemente corrucciata. Così come non ne posso più di come lo concia Tim Burton. Se la psichedelia ha una sua dignità, e io lo credo fermamente, smettete di applicarla al viso e ai capelli di Depp. In Edward - Mani di forbice c'era un senso che rendeva affilate le invenzioni trucco e parrucco di Johnny. Poi è arrivato Willie Wonka e abbiamo deciso di accettare, per amore del cioccolato, anche la dentiera e le crocchie degne della governante di Rebecca la prima moglie. Ma ora anche il cespuglione di capelli rosso rame e gli occhi verdi spiritati sono troppo. La relazione fra Burton è Depp è chiaramente diventata un incubo, una  co-dipendenza fatta di trucchi e lacche, come neanche l'altro Burton, Richard nella fattispecie, e l'Elizabeth Taylor degli anni 70 hanno mai osato esplorare. Chi ha paura di Tim-Depp?  Io sì.