venerdì 4 aprile 2014

Alla ricerca di Vivian Maier di John Maloof e Charlie Siskel

Quando ero bambina c’era la mamma, il papà e la Ia. La Ia era la mia tata. Ovviamente questo non era il suo vero nome, ma quello che le avevo affibbiato io che, troppo piccola per poter pronunciare la parola “Signorina”, l’avevo abbreviata in Ia. Fu assunta dai miei genitori quando io e i mio fratello eravamo piccolissimi. Ha visto mio fratello minore nascere. Ci ha tirati su. Ha smesso di lavorare per la mia famiglia solo quando i miei genitori si sono separati e hanno chiuso la casa dove abbiamo sempre abitato. Avevo ormai 32 anni. Ho continuato a fare visita alla Ia fino a quando non è morta, due anni fa, a 84 anni. In tutti questi anni non credo di aver mai saputo bene chi fosse questa donna che ha trascorso e offerto la sua vita, insieme al sacrificio del suo nome proprio, a me, ai miei fratelli e ai miei genitori. Non serviva. Lei era vera, reale, in quanto la mia tata. Al di là di questo nient'altro sembrava necessario. In casa nostra, in quella che è stata anche la sua casa per più di trenta anni, aveva la sua camera, tenuta come una piccola sagrestia. Ordinatissima, piena di immaginette religiose e di foto di famiglia, questo era l’unico luogo dove la Ia tornava Anna e per questo difeso fermamente contro i nostri tentativi di forzare uno spazio per lei sacro. Non credo che la camera di Vivian Maier fosse così ordinata, ma penso che con la mia Ia abbia condiviso lo stesso bisogno di segretezza per arginare una vita alla mercé degli altri.
Vivian Maier è la protagonista di un documentario, “Alla ricerca di Vivian Maier”, di John Maloof e Charlie Siskel distribuito da Feltrinelli Real Cinema. Vivian era una tata. Per 40 anni ha tenuto bambini altrui, vissuto in case altrui, abitato letti altrui. E fatto foto. Per decenni la Maier ha scattato più di centomila foto, girato centinaia di filmini, inciso decine di audiocassette e accumulato giornali e quotidiani in pile altissime e pesanti che finivano per incassare il parquet della sua stanza. Ma durante la sua lunga vita (la Maier è morta nel 2009 a 83 anni) non ha mai pubblicato e spesso neanche sviluppato un solo negativo.
Dall’alto del suo metro e ottanta di altezza questa donna dal grande naso, che sembra uscire da un film di Jacques Tati (sua madre era francese e lei stessa ha trascorso lunghi anni della sua infanzia in un paesino sperso nelle montagne savoiarde), ha percorso chilometri di strada con comode scarpe piatte, larghi cappottoni e berretti dall’ampia falda riprendendo con l’onnipresente Rolleiflex al collo tutto ciò che vedeva per strada - vecchie signore impellicciate, bambini piangenti, barboni sul ciglio della strada, animali morti, vecchie bambole buttate nel cestino – tutte immagini che non avrebbero mai visto la luce se non fosse stato per un caso fortuito. Nel 2007 a un’asta John Maloof entrò in possesso di alcuni dei suoi rullini e da allora, con una determinazione ammirevole, è riuscito a recuperare la maggior parte del materiale della Maier, che oggi è considerata una delle grandi fotografe del '900 con mostre in tutto il mondo. 
Negli anni Maloof ha ritrovato anche centinaia di altri scatoloni nei quali la Maier aveva accumulato nel tempo i suoi effetti personali. Una moltitudine di oggetti che nel corso della sua vita hanno significato qualcosa per lei e che ha forse conservato per creare come  Pollicino, una sorta di sentiero segreto,  visibile solo a occhi esperti e desiderosi di raggiungere una zona molto vicina al suo cuore e alle sue emozioni più profonde. Ma non successe mai. A una signora che una volta le chiese cosa facesse nella vita, Vivian Maier rispose che era una spia. Certo, con la sua macchina fotografica la Maier spiava persone, cose e animali. Ma soprattutto, come una spia, la Maier conduceva una doppia vita: una socialmente accettata, visibile, contornata da bambini e dalle famiglie di questi. E poi c’era l’altra vita. Quella di una donna solitaria, eccentrica al limite dell’alienazione, che ha fatto fotografie bellissime, profondamente empatiche verso un mondo che riusciva a leggere con incredibile lucidità.  Nella sua solitudine, oltre alle foto di strada, la Maier ha anche scattato decine di autoritratti, quasi nel tentativo di ridisegnare la sua identità al di fuori di quella ordinatamente offerta a coloro che la ospitavano.
Io credo che il senso di questo film sia soprattutto di quanto sia impossibile conoscere la reale essenza di una persona, di quanto sia difficile per tutti noi entrare davvero in contatto con i nostri simili e come, al tempo stesso, questo imponente desiderio di mostrarci agli altri per come siamo veramente e metterli a parte del nostro mondo interiore sia la cosa che più di ogni altra ci tiene su questa Terra e ci fa andare avanti con l’esistenza che ci è data.