mercoledì 26 maggio 2010

La regina dei castelli di carta di Daniel Alfredson

Fa così piacere vedere ogni tanto un film in cui sono tutti brutti. Per una volta la fotografia invece di levigare visi e paesaggi, sembra enfatizzare le rughe, le crepe, le mestizie.
L'ultimo episodio della saga del Millenium scritta da Stieg Larsson, è meno violenta delle altre, ma non per questo meno allarmante. Basta un sasso tirato contro una vetrata per farti sobbalzare sulla poltrona come se stessero squartando un bue. Il ritmo a me è parso buono, anche se non c'è niente di speciale, il film è scolastico ma in questi casi io non ci vedo grandi problemi. Agli amanti di Larsson l'idea di un film che segua pedissequamente le pagine del libro dà sicurezza, sono finestre visive che si aprono sulle parole. 
Ma il punto che mi preme descrivere è proprio la bruttezza di tutti. Che mi è parsa rinfrescante, se non proprio un manifesto pro Svezia.
A Erika il volto è prolassato, Michel ha la pelle più butterata che mi sia stato dato vedere, Lisbeth ha  i pori aperti e il Pubblico Ministero ha la dentatura di Provolino. Stoccolma pare una città triste e bagnata, i palazzi sembrano concepiti dal Comintern e i tram un residuato bellico.
E tutto questo, dopo anni di attori americani tutti bellissimi e tutti fantastici anche quando devono interpretare un clochard, appare così fuori dal mondo da risultare esotico più delle eroine di Sex and the city ad Abu Dhabi.

La nostra vita di Daniele Luchetti

Claudio (Elio Germano) è un giovane operaio edile a cui muore l'amatissima moglie (Isabella Ragonese), dando alla luce il 3 figlio maschio. La reazione di Claudio alla sua incapacità di gestire il dolore e le emozioni (appannaggio della moglie) è quella di rimpiazzarle con le "cose". Preoccupato di guadagnare di più prende in sub appalto il cantiere di una palazzina nell'hinterland romano facendosi prestare i soldi dall'amico, un pusher dal cuore d'oro immobilizzato sulla sedia a rotelle (Luca Zingaretti).  Ma essendo un incapace, manda tutto rapidamente a puttane. La situazione sembra precipitare quando arriva in soccorso, come la cavalleria americana, la famiglia nelle vesti del fratello buono e un po' lento (Raul Bova) e la sorella iper materna (Stefania Montorsi) che gli prestano i soldi per metterci una pezza. Tutto si aggiusta e, imparata la lezione, Claudio riesce anche a riscoprire una comunicazione emotiva con i suoi figli. 
"La nostra vita" è uno di quei film di cui non so scrivere. Non posso dire che non mi sia piaciuto, non posso dire che mi abbia lasciato indifferente, eppure non convince fino in fondo. Gli attori sono bravissimi, persino Raul Bova sa recitare, Germano ha meritato la Palma d'oro e Zingaretti è strepitoso come al solito. Ci sono parti di dialogo molto divertenti,  sono ben scritte. E molte delle situazioni e del mondo descritto sono credibili, vere, toccanti. Eppure alla fine il film ti lascia con un senso di non riuscito, di incompletezza... con un po' di amaro in bocca. In gran parte la cosa è dovuta alle soluzioni finali di sceneggiatura: nel momento in cui tutto sembra perduto, in cui gli operai abbandonano il cantiere inferociti razziando tutto quello che c'è e gli amici violenti del pusher vogliono indietro i loro soldi, quando la tragedia greca insomma raggiunge il suo climax... basta una riunione familiare e spuntano fuori denari, aiuti e soluzioni e l'amore torna a vincere su tutto. Un po' troppo facile.
Ma forse il senso di incompletezza e di non riuscito è perchè alla base il film descrive un'Italia che di fatto oggi è incompleta e non riuscita, un'Italia ormai tutta composta da una piccola borghesia forse buona, ma incolta e materiale, così vera e desolante che persino la cattiva soluzione delle cose, l'intervento di famiglia, è l'unica soluzione praticabile; dove il buonismo è spesso sintomo di inadeguatezza culturale, il centro commerciale è visto come l'eden e la cialtroneria infinita. Forse è per questo che mi sono annoiata tanto a scrivere questo post, chi non si annoierebbe a parlare di un mondo così.


giovedì 13 maggio 2010

Robin Hood di Ridley Scott

Dunque, c'è Russell Crowe che fa il Gladiatore... pardon, Robin Hood.... Scusate mi sono confusa, però è vero che viene naturale visto che Russell fa un po' la stessa parte.
Comunque... c'è Robin Hood, ma non è come ce lo immaginiamo noi, alla macchia nella foresta di Sherwood, ma prima, molto prima. Quando combatte con Riccardo Cuor di Leone in Francia, ultimo stadio di una lunga Crociata. Poi giunge in Inghilterra sotto mentite spoglie, ma il caso e la fortuna gli fa non solo mantenere i panni non suoi, ma insieme a quelli eredita una moglie come Cate Blanchett e un padre come Max Von Sydow, che è uno dei pezzi meglio.
Poi si mette alla testa dei baroni inglesi che si ribellano a Giovanni Senza Terre e infine riesce a rimandare indietro i francesi invasori appena sbarcati sulle spiagge inglesi. Ma visto che la vita è dura, invece di godersi i fasti della vittoria, viene proscritto e considerato un fuorilegge. E qui inizia il divertimento e finisce il film. Quindi se proprio volete la roba del fuorilegge dovete andarvi a ripescare il Robin Hood di Disney.
Il film è un po' farraginoso. Nel tentativo di nobilitare e nobilitarsi, il duo Crowe-Scott ha scelto una strada complicata a livello di plot e sinceramente lunga, in cui si fa fatica a seguire tutti i temi e sotto-temi politici.
Quindi, non starò qui a sprecar gran fiato.
Le battaglie sono belle, lo sbarco dei francesi in Inghilterra somiglia moltissimo allo sbarco in Normandia, dove persino le imbarcazioni utilizzate ricordano i mezzi da sbarco americani, alcuni battibecchi fra Cate e Russell fanno brevemente sorridere e c'è una veduta aerea della foce del Tamigi che ho trovato molto bella. Il film si fa vedere ma non lo metterei nella top list di cose da fare se avete fretta e la crisi vi ha tagliato il budget dedicato alle attività ludiche. A meno che non rubiate il prezzo  del biglietto ai ricchi per darlo a voi poverelli.